Vinicio Boschetti racconta: l’amara esperienza con I Diari di Giancarlo Parretti e la decisione prendersi la responsabilità di fatti ai quali era estraneo per salvaguardare la società

Oggi sesta puntata del volume pubblicato da Vinicio Boschetti “Giustizia è sfatta”

Oggi sesta puntata del racconto di Vinicio Boschetti, pubblicitario di successo nella Sicilia di fine anni ’70, anni ’80 e anni ’90. Oggi il racconto – tratto da libro dato alle stampe dallo stesso Vinicio Boschetti – Giustizia è sfatta – è imperniato su una disavventura: la perdita del lavoro del protagonista del volume, ovvero il suo licenziamento dalla manzoni. “Questo è un capitolo della mia vita – scrive Boschetti – che mi ha molto segnato. Mi sono piovute addosso accuse dalle quali non mi sono potuto difendere. Se mi fossi difeso e avessi raccontato come erano andate le cose – e lo potevo provare, perché avevo le ‘carte’ che dimostravano la mia estraneità ai fatti – avrei messo in cattiva luce la società per la quale lavoravo. Così ho fatto una scelta: ho deciso di accollarmi responsabilità non mie non soltanto per salvaguardare la società per la quale lavoravo, ma anche per tutelare l’immagine di quel gran galantuomo che era il Commendatore Augusto Carbone, al quale sono rimasto legato per tutta la vita. Non ho mai raccontato questi fatti. Nemmeno quando certi giornalisti, che di me sapevano poco o nulla, mi hanno gettato fango addosso. E’ successo, peraltro, con un giornale per il quale ho lavorato come pubblicitario. Dicono che a fare del bene non sempre si riceve del bene. Non ho mai voluto credere a questo detto amaro, tipico di una Sicilia nella quale, spesso, prevale lo sconforto. Amo la Sicilia, ci vivo dal 1978. Ma non ho mai condiviso il fatalismo misto a pessimismo cosmico di certi siciliani. Sarà perché sono pugliese, sarà perché sin da bambino sono cresciuto con il culto della Madonna, sarà perché la vita mi ha messo tante volte alla prova e ho sempre tirato dritto. Però, debbo ammettere che la vicenda giudiziaria che mi ha travolto – con la violenza di una grande ingiustizia, con verità che non potevo rendere note – ebbene mi ha fatto vacillare un po’. Vacillare sì, ma non ho mai cambiato opinione sulla vita e, soprattutto, sulla mia scelta – totalmente libera – di salvaguardare la società e il Commendatore Carbone. Andiamo ai fatti”.

“Noi scriviamo gli articoli, tu fai il pubblicitario”

Già, i fatti. Nel capitolo precedente abbiamo raccontato come il pubblicitario Boschetti, a causa di un articolo che era risultato ‘indigesto’ a una società che aveva acquistato pubblicità per 100 milioni di lire – che nei primi anni ’80 del secolo passato erano una cifra! – aveva perso questi 100 milioni di lire. “Ovviamente ero un po’ demoralizzato – scrive -. La ‘botta’ era stata forte. Provai a spiegare editori e giornalisti che era necessario raccordarci prima di scrivere certe inchieste. Se non altro perché non è molto elegante andare a chiedere la pubblicità ad una società che è stata attaccata dal giornale. Come dire? Sa un po’ di ricatto. I giornalisti, come ho già ricordato, mi risposero a muso duro: “Noi scriviamo gli articoli, tu fai il pubblicitario”. In realtà, le cose non stavano proprio così. Dissi ai giornalisti: “Non mi risulta che i giornali che fanno capo alla Fiat attaccano la Fiat”. Lo stesso discorso si potrebbe fare oggi con le televisioni di Berlusconi. Riuscite a immaginare i giornalisti che lavorano per le televisioni di Berlusconi che vengono più in Sicilia a fare un’inchiesta sui possibili rapporti tra certi ambienti della Sicilia e la realizzazione di Milano 2? Qualcuno mi disse anche: “Tu non sei l’editore, sei il responsabile della pubblicità”.

L’ammanco di 240 milioni di lire

“Questa vicenda di Milano – scrive Boschetti – mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Tornai ad immergermi nel mio lavoro. Ricordo che, in quei giorni, c’erano state discussioni tra Antonio Raspa e Giancarlo Parretti. Scazzato per com’ero mi tenni fuori. Nei giorni successivi avvenne il patatrac. Parretti venne in possesso di alcuni fogli di carta intestata alla Manzoni. Mise nero su bianco una dichiarazione nella quale spiegava che aspettava di incassare 300 milioni di lire di pubblicità. A questo punto succede una cosa strana. Sulla base di questa dichiarazione la banca, senza fare accertamenti, eroga a Parretti l’80% di 300 milioni di lire! La banca avrebbe dovuto contattare la società, fare accertamenti. Invece non succede nulla di tutto questo. Parretti incassa i 240 milioni di lire. A quel tempo i passaggi di denaro dalle banche non erano controllati come oggi. Peraltro Parretti era l’editore de I Diari, non era proprio l’ultima persona”. Insomma, Parretti era l’editore. Tutto regolare. All’appello mancano solo i 240 milioni di lire. Boschetti precisa che era lui che ogni mese firmava gli assegni della società: “Avevo questo potere e pagavo direttamente i fornitori di carta e lastre e, a volte, ho fatto anche anticipazioni a giornalisti. Magari alla fine avremmo potuto dimostrare di avere ragione, forti anche del fatto che la banca si era fidata della dichiarazione di Parretti senza fare accertamenti con la società che raccoglieva la pubblicità. Ma a che prezzo? Sarebbe esploso uno scandalo. Per chiarire i fatti ci sarebbero voluti due o tre anni e forse più. Io con gli assegni fatti a fornitori in un fallimento potevo coinvolgere la Manzoni, In più i 240 milioni di lire non sarebbero stati recuperati”.

“A me, nonostante le difficoltà del momento, interessava fare andare il giornale in edicola. Così ho firmato alcuni assegni, in alcuni casi rimettendoci i miei soldi”

“La situazione era difficile – scrive sempre l’autore del libro -. Il collega della Manzoni di Siracusa – città da dove era partita la lettera verso il Banco di Sicilia – venne trasferito a Cremona. Io che lavoravo a Palermo e il collega di Catania siamo rimasti fregati. Il collega di Catania si è  trovato fuori, se non ricordo male, di un centinaio di milioni di lire. La mia situazione era più complicata, perché era noto a tutti che non mi fidavo molto di Parretti. Soprattutto quando di mezzo c’erano soldi. L’ho detto e lo ribadisco: quando ci sono di mezzo soldi l’abilità di Parretti è fuori dal comune. E’ capace in inventare in un batter d’occhio le operazioni più incredibili. Io avevo il potere di firma. L’ammanco di 240 milioni di lire rischiava di fermare i giornali. Bisognava pagare i giornalisti e la tipografia. O, in alternativa, bloccare tutto. A me, nonostante le difficoltà del momento, interessava fare andare il giornale in edicola. Così ho firmato alcuni assegni, in alcuni casi rimettendoci i miei soldi. La notizia che a Siracusa erano spariti 240 milioni di lire girava, anche se all’inizio si era deciso di non farla trapelare troppo. E soprattutto di non far sapere nulla ai giornalisti che, ovviamente, sapevano tutto. Così ho anticipato i soldi per pagare gli stipendi. Con l’ammanco che era saltato fuori non c’erano i soldi per pagare gli stipendi a giornalisti e tipografi. Ho anticipato 10 milioni di tasca mia e, per andare avanti, mi sono rivolto alla Banca di Palermo, dove D’Agostino era socio insieme con i Cassina. La Banca di Palermo mi concesse un fido di 15 milioni di lire. Ho anticipato 180 milioni di lire della Manzoni consegnando assegni trasferibili dei clienti e altri assegni. Ripeto: la ‘botta’ era stata pesante. Pur facendo i salti mortali per pagare giornalisti e tipografia all’appello mancavano 240 milioni di lire che dovevano essere consegnati alla Manzoni. E, ovviamente, questi soldi non c’erano”.

Finito nei ‘casini’ per una lettera mai scritta

“Carbone venne a Palermo – scrive Boschetti -. Mi diede appuntamento all’Hotel delle Palme. Come sempre, si comportò da gran signore. Mi spiegò che, così come si erano messe le cose, essendo io il capo area e lui quello che mi aveva voluto in Sicilia, entrambi rispondevamo di questo ammanco. Entrambi eravamo a rischio. Così ho preso una decisione d’accordo con il Commendatore Carbone: pur non avendo nulla in comune con la carta intestata alla Manzoni partita da Siracusa e finita in banca, pur avendo anticipato anche il mio denaro – una decina di milioni di lire circa – mi sono preso la responsabilità. La Manzoni e Carbone uscivano indenni da questa vicenda e il ‘responsabile’ ero io. Un eventuale fallimento di Parretti avrebbe coinvolto la Manzoni: cosa che ho evitato assumendomi la responsabilità di un ammanco provocato da Parretti. Come ho raccontato, tra giornali, televisioni e radio ho gestito miliardi di lire. Mai un’ombra. E dovevo finire nei ‘casini’ per una lettera a una banca che non avevo scritto io!”.

L’inchiesta del pubblico ministero Giuseppe Ajala

“Sono stati giorni difficilissimi e amari – scrive sempre Boschetti -. Anche perché avrei dovuto subire un processo per fatti di cui non ero responsabile. Il collega di Catania, che era stato ‘sfiorato’ da questa storia ebbe un crollo psicologico e si tolse la vita. E io sono finito sotto processo con l’accusa di appropriazione indebita. Carbone mi disse: ‘Non ti preoccupare per il processo e per il lavoro. Fino a quando sarò su questa terra a te il lavoro non mancherà mai’. Mi piace ricordare la mia segretaria, la signora Jole Buongiorno. Quando ho lasciato la Manzoni, lei ha deciso di andare via. Era amareggiata. Sapeva un po’ di cose vere e ha preferito mollare. In quel periodo avevo acquistato una Jeep militare che non ho avuto il tempo di godermi. In tutto il casino nel quale ero finito ero rimasto senza soldi. Avevo cinque carte di credito tutte azzerate. Ricordo che Antonio Bartoccelli, ignaro di tutto, mi disse un giorno scherzando: ‘Vinicio, hai provato il piacere di avere una Jeep americana , ebbene, dalla indietro e lascia perdere’. Visto che ufficialmente ero il ‘responsabile’ dell’ammanco, la Manzoni mi denunciò. Come parte civile ha nominato l’avvocato Paolo Seminara, dove se non ricordo male poi si è fatta le ossa Giulia Buongiorno. Ancora una volta si cambiava vita. Andai a Roma aiutato da Carbone. Andai a lavorare alla Chantal Du Bois; dovevo andare anche al Globo. Venni contattato dalla PK e dalla Spi. Insomma, dovevo ricominciare da capo. Decisi di andare a lavorare per la casa editrice Bietti, dove lavorava come direttore Alberto Sensini. Dormivo negli uffici di Parretti, a Roma, in Via XX settembre, a fianco del Quirinale. In quel momento non sapevo che ero diventato un latitante. Il pubblico ministero del Tribunale di Palermo, Giuseppe Ajala, aveva emesso a mio carico un mandato di cattura. Tornai a Palermo e venni arrestato. Il conte Artuso Cassina, che sapeva tutto di questa storia e per me è sempre stato un amico, tramite il dottor Battaglia  (dello studio BCC Battaglia Cassina Cusennz ) andò a casa mia e diede a mia moglie 5 milioni di lire. Sono rimasto in carcere circa un mese. Nominai il vecchio avvocato Aldo De Lisi per difendermi. La Manzoni tramite il suo presidente tolse la parte civile e Parretti e Carbone nominarono un bravo avvocato dello studio di Giuliano Vassalli, che era Ministro della Giustizia. In quei giorni era in arrivo l’amnistia. Anche questo faceva parte dell’accordo. Ma l’amnistia non arrivò. In compenso arrivò l’indulto. Tutto finito. Ma non ero più alla Manzoni”.

Fine della sesta puntata/ Continua

QUI TROVATE LE PRIME CINQUE PUNTATE

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