‘Nabucco’ dell’Estate 2022 all’Arena di Verona ritrasmessa ieri sera su Rai 3: una trasposizione dell’Opera nella quale non ci siamo ritrovati

di Maddalena Albanese

Un po’ perplessa e un po’ delusa

In questi giorni, mio malgrado, sono impedita ad uscire e, ob torto collo, quando non faccio aggiornamento o non riesco a leggere, vegeto davanti al computer, guardando dei canali culturali su YouTube (eppur ci sono!) o dei programmi televisivi trasmessi via streaming. Stamattina, al limite della mia lucidità mentale, mi sono imbattuta sulla app di Ray Play nella raccolta “La Grande Opera all’Arena di Verona”. Essendo una melomane sfegatata e, soprattutto, una verdiana convinta, non mi è sembrato vero di trovare, nella raccolta, Nabucco, una delle mie Opere Liriche preferite (sopra foto tratta da VeronaSera). E’ come quando ti piace una pietanza, tu pensi: “Pure sbattuta al muro!”; così è stato appena ho visto che c’era Nabucco: non ho neppure guardato quale edizione fosse. L’edizione in questione è quella dell’Estate 2022 all’Arena di Verona ritrasmessa ieri sera su Rai 3. Certo, sono male abituata: nella mia memoria ancora trattengo vivo il ricordo del Nabucco “live” del 1983 per la direzione di Riccardo Muti e per la regia di Roberto De Simone, o, anche, l’indimenticabile registrazione del Maestro Sinopoli con un Nabucodonosor interpretato da mostri sacri quali i grandi Renato Bruson e Piero Cappuccilli, rispettivamente, una Abigaille di lusso animata dalla mitica Ghena Dimitrova (in entrambe le edizioni), o un Ismaele (parte tenorile non da protagonista), tanto per gradire, interpretato dal gigantesco Placido Domingo nella registrazione di Sinopoli, che conservo gelosamente. A proposito della Dimitrova: una grande donna ed una voce incantevole. Al Conservatorio di Sofia, per mantenersi agli studi di soprano, lavava i piatti alla mensa dello stesso Conservatorio, derisa dai suoi colleghi che, tanto facoltosi, quanto stupidi e crudeli, non avevano bisogno di faticare per studiare. Peccato che lei abbia poi cantato in tutti i più grandi teatri del Mondo, interpretando Abigaille per circa quaranta anni consecutivi, dal 1968, data del suo debutto in questa opera, accettata la prima volta, dopo il rifiuto di altre due sue colleghe, al 2000, cinque anni prima di morire. Madame Dimitrova, chapeau!

Le licenze poetiche talvolta creano confusione

Ho pensato: Arena di Verona+Verdi+Nabucco= massaggio di rinascita per la mente ed il cuore. La prima fitta al cuore l’ho avuta quando ho visto che questa edizione contemplava uno spostamento in avanti della storia dal VI Sec. A.C. al XIX Sec. D.C.: nemmeno Michael Crichton in Timeline era arrivato fino a tanto. Personalmente non amo le trasposizioni storiche nelle Opere Liriche: un luogo, un tempo, le peculiarità culturali, gli stessi nomi dei protagonisti diventano anacronistici. Un po’ come i personaggi dell’antichità raffigurati nelle opere del periodo barocco: a prescindere dalla loro epoca storica erano sempre vestiti come i contemporanei del pittore. Il secondo strale mi ha colpito osservando tutto quel popolo di comparse che ha cominciato ad animare (e anche parecchio) il palcoscenico già dalla sinfonia iniziale. La sinfonia o la ouverture in una opera lirica sono delle meditazioni musicali sul dramma che da lì a poco si rappresenterà sulla scena: vogliono solo essere ascoltate in silenzio ed al buio. Il terzo strale mi ha abbattuto (ormai ero all’emopericardio!) quando quel popolo di comparse, vestito un po’ come garibaldini, un po’ come crocerossine, un po’ con dei colori che non ricordavo avere mai visto nelle divise del XIX secolo (ma sicuramente è una mia carenza culturale), ha cominciato ad essere ferito da nemici non particolarmente visibili e lì ho visto, con questi occhi!, un soldato che faceva la rianimazione cardiopolmonare ad un altro soldato sanguinante! Questo è stato troppo. E va bene la licenza poetica, però la rianimazione cardiopolmonare, come la conosciamo oggi, ha iniziato ad esistere nella seconda metà del XX secolo; lo stesso elettrocardiogramma, che ne è alla base, è nato all’inizio del secolo scorso.

Se si mette in scena una rappresentazione religiosa, ebbene, è rispetto esemplificarla con le dovute regole liturgiche

Come se non bastasse, le soccorritrici donne, che nel 1848, anno delle cinque giornate di Milano, periodo in cui è ambientata questa edizione operistica, già si potevano chiamare infermiere, erano vestite da Crocerossine. Peccato che Florence Nightingale avesse gettato le basi della Croce Rossa nella guerra di Crimea che si è svolta dal 1853 al 1856, quindi dopo, e che la Croce Rossa Internazionale abbia visto la luce solo nel 1864. Sempre ad inizio d’opera, già a”sipario aperto”, è stata cantata una preghiera al ‘Dio di Abrano’ durante una processione cristiano-cattolica con il Santissimo e con la Madonna. Un po’ più di cultura liturgica sarebbe stata opportuna: il Santissimo viene portato in processone da solo (comunque… era con sua Madre, quindi niente da dire), viene portato con un solo Ostensorio (non due come in questa rappresentazione), viene tenuto solo dai scerdoti (mentre gli Ostensori e le Pissidi di scena erano tenuti dai chierichetti). Insoimma, un pout-pourri buono per palati che accettano tutto senza tanti complimenti.

Magari mi faccio troppe domande. Però…

A questo si è aggiunto un continuo riferimento al popolo italiano come “Popolo di Giuda”, a Milano come a “Sion” (Gerusalemme) e all’Imperatore Francesco Giuseppe come a Nabucodonosor, re del dio di Belo. Con buona pace del fatto che l’Imperatore d’Austria era un regnate cattolico discedente da una delle famiglie imperiali più cattoliche d’Europa. Inoltre Francesco Giuseppe si sposerà con Sissi solo nel 1854. Quindi le due figlie adulte che gli vengono appioppate, da dove sarebbero spuntate? In ultimo, chicca storica, la conquista del Tempio di Gerusalemme, è diventata la conquista del Teatro alla Scala, inteso come tempio della musica e della cultura. Però non penso che l’uno, cuore pulsante della vita religiosa, politica, culturale, anche, perché no?, quotidiana, dell’identità insomma di un popolo sia lontanamente paragonabile ad un teatro. Comunque, mio marito mi dice sempre che mi faccio troppe domande (sotto, foto tratta da Wikipedia).

Un gigantesco “trompe l’oeil”

Tutta questa edizione è stata come un gigantesco “trompe l’oeil” in cui l’occhio trasmette al cervello la luce del cielo attraverso un tetto e la mano che lo tocca sente il freddo del cemento. O come quei cibi ingannevoli, divertissement per chef, in cui un piatto che alla vista sembra salato, ingenera confusione nel cervello perché è un dolce camuffato. Altri aspetti di questa edizione che personalmente non ho trovato allettanti si potrebbero sottolineare, anche se ho letto ottime recensioni riguardo al regista che l’ha ideata, e che sicuramente è di grande levatura nel suo campo, molto stimato e ricercato a livello internazionale (come anche gli altri artisti che ho visto). Con questa mia riflessione personalmente ritengo che non sempre è necessaria una trasposizione storica/culturale di un’opera lirica per farla diventare attuale agli occhi dei contemporanei. L’Opera Lirica, come altre forme di arte, racconta dei paradigmi umani e li rende immortali, tanto che ogni uomo, in ogni luogo ed in ogni tempo, vi si può specchiare e riconoscere. Tornando alla edizione del 1983 per la direzione del Maestro Muti ho ancora viva nella mente il “Va Pensiero” e nel cuore l’emozione vi è rimasta indelebile: l’emozione di ascoltare un popolo che piange la propria libertà perduta, che chiede perdono e aiuto a Dio, popolo che spera nell’aiuto che sicuramente arriverà, perché verrà da un Dio Fedele, che riconosce finalmente come l’Unico Dio, popolo che ama questo suo Dio, più di quanto lo abbia mai amato. Perché è amore che nasce dalla presa di coscienza di sé e di Dio. Il “ Va Pensiero” , paradigma di tutte le possibili emozioni narrate dall’Opera Lirica, è nato come una tiepida brezza che ha attraversato e attraverserà i venti gelidi che spazzano i cuori di tutti gli uomini oppressi ed esiliati, prigionieri di se stessi o del proprio prossimo e che darà loro sempre la speranza di ritrovare la libertà, il più grande dono di Dio all’Uomo.

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