La vecchia firma va scomparendo, travolta dalla ‘rivoluzione digitale’. Ma chi garantisce che la firma ‘digitale’ rappresenti la vera volontà del presunto firmatario?

di Nota Diplomatica

Sembra una questione di poco conto, invece può dare vita a cause miliardarie

L’autografo – o più propriamente, la firma – che appare qui sopra è quello del drammaturgo inglese William Shakespeare (1564-1616). Sapendo che si chiamava “William”, riusciamo a decifrare la prima parte del nome, ma – oltre alla “S” iniziale – il cognome è illeggibile. La firma di Shakespeare è uno scarabocchio, ma noi perlopiù non siamo abituati a fare molto di meglio. Dopo tutto, ‘apporre la firma’ è un atto rituale che usiamo per confermare la nostra identità in calce a un assegno o a un contratto. Non è vera ‘scrittura’. La firma dovrebbe provare che il firmatario ha personalmente preso atto del contenuto che viene così autenticato. È lo stesso senso che ha l’autografo raccolto dai fan di una diva o dai tifosi di un atleta: “L’ha fatto con le sue mani!”

Una vicenda emblematica: una causa civile da 400 milioni di dollari che coinvolge il ‘Re dell’acciaio’ anglo-indiano, Sangeev Gupta

La ‘firma firmata’ è ormai obsoleta, sta scomparendo. Già a rischio estinzione a causa della fotocopiatrice, la ‘rivoluzione digitale’ le ha dato il colpo di grazia. La legalità però evolve meno velocemente della tecnologia e lo scontro tra le due discipline cresce d’intensità. Chi ci garantisce che la firma ‘digitale’ rappresenti la vera volontà del presunto firmatario? La questione è al centro di una causa legale inglese dal valore di $400 milioni che coinvolge il ‘Re dell’acciaio’ anglo-indiano, Sangeev Gupta, un suo finanziatore, Greensill Capital, e il gruppo assicurativo Zurich. Gli svizzeri accusano Gupta e Greensill di cospirazione nella presentazione di documenti finanziari risultati poi ‘non veritieri’ che portano la firma di Gupta: tali documenti avrebbero persuaso Zurich della solidità finanziaria di un’operazione per cui aveva rilasciato una garanzia assicurativa. Greensill e Gupta negano l’accusa, argomentando che la firma non era necessariamente quella ‘vera’ di Sangeev Gupta il quale, essendo a capo di un gruppo molto esteso, “non può fisicamente arrivare a firmare tutti i documenti per i quali si cerca la sua firma”. Pertanto, spiegano, “è emersa l’abitudine di impiegare un timbro della sua firma oppure una firma digitale, anche per documenti che lui non avrebbe potuto personalmente revisionare e forse nemmeno vedere…”

Questione di deleghe

Non è probabile che l’esito del processo verterà tanto sul fatto che Gupta abbia firmato ‘personalmente’ o meno, ma piuttosto sulle deleghe da lui rilasciate e sulle sue responsabilità come capo del gruppo. La vicenda però sottolinea che ‘la firma’ non è ormai una garanzia della conoscenza diretta del presunto firmatario. Per ora, non è emersa un’equivalente efficace alla ‘vecchia’ firma ad inchiostro. Potrebbe una diva siglare il programma di un suo spettacolo con un PIN o con un’impronta digitale?

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