La guerra a Gaza: proviamo a ricostruire cos’è accaduto in Palestina negli ultimi cento anni

di Mauro Crisafulli

Una storia amara

Solo quando l’opinione pubblica occidentale saprà cosa è accaduto in Palestina negli ultimi 100 anni capirà di chi è il grande torto nel conflitto, capirà che il grande terrorismo è israeliano, e che il terrorismo palestinese è reazione a decenni di orrori sionisti, capirà che i palestinesi hanno ragione e che la loro reazione di violenza è oggi solo esasperazione per tanta indicibile ingiustizia. E l’opinione pubblica occidentale a quel punto fermerà il conflitto. Ma all’opinione pubblica occidentale nessuno ha mai raccontato cosa è accaduto in Palestina. Questo cambierebbe la storia e cesserebbe l’orrore. Perché la gente verrebbe a sapere delle pratiche neonaziste storiche degli ebrei in Palestina contro i palestinesi prima e dopo la nascita d’Israele; capirebbe perché un popolo torturato e massacrato da anni oggi lancia razzi alla disperata anche contro Paesi terzi. Perché nessun palestinese può rimanere “civile” dopo decine di anni di ferocia neonazista israeliana in Palestina, impunita e assistita con zelo dal mondo civile occidentale.

Gli ultimi 100 anni

Ma cosa è successo negli ultimi 100 anni? Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, voleva dare agli ebrei una terra ma non credeva alla teoria del ritorno e non era convinto che questa terra dovesse essere necessariamente la Palestina. Se sua maestà britannica gli avesse fatto dono dell’ Uganda, su cui sventolava da poco tempo la «Union Jack», Herzl se ne sarebbe accontentato e avrebbe guidato il suo popolo, come un novello Mosè, verso una terra africana. Ma nel congresso sionista in cui la soluzione ugandese fu dibattuta, il precursore dello Stato ebraico constatò che la maggioranza dei partecipanti non intendeva rinunciare alla Palestina e non era disposta a prendere in considerazione altre prospettive. Herzl si adattò alla loro volontà e si consolò pensando che la Palestina presentava, per il fine che egli si era proposto, uno straordinario vantaggio: era spopolata e quindi particolarmente adatta ad accogliere l’immigrazione ebraica. La frase favorita con cui Herzl presentava ai suoi interlocutori i progetti del movimento sionista divenne da quel momento «una terra senza popolo per un popolo senza terra».

Sudditi protetti dell’impero britannico

Il leader sionista, paradossalmente, aveva allo stesso tempo torto e ragione. Aveva torto perché la Palestina, agli albori del suo movimento, era abitata da contadini, pastori, mercanti e artigiani arabi, prevalentemente musulmani. E aveva ragione perché quel popolo non era una nazione e non aveva alcuna coscienza della propria particolare identità. Erano «indigeni» che avevano lungamente occupato una provincia dell’impero ottomano ed erano divenuti, dopo la grande guerra, sudditi protetti dell’impero britannico. È davvero così sorprendente che ai Paesi della regione, nel ’48, la spartizione decisa dall’ONU e la contemporanea creazione di due Stati «palestinesi» – uno ebreo, l’altro arabo – sembrassero una intollerabile invasione di campo? Proviamo a metterci nei loro panni. Terminata la guerra avevano salutato con entusiasmo la fine dei grandi imperi coloniali. L’Italia sconfitta aveva perduto la Libia. La Francia semisconfitta aveva dovuto rinunciare al Libano e alla Siria. La Gran Bretagna vincitrice aveva concesso l’indipendenza all’India (la regina madre, morta qualche mese fa, ne fu l’ultima imperatrice) e si preparava ad andarsene dalla Palestina. «Il mondo arabo agli arabi» era ormai diventato il motto del giorno. Ma ecco che, all’alba di questo mondo nuovo, la maggiore organizzazione internazionale decide di dare una patria agli ebrei e di permetterne la nascita in una regione storicamente araba.

I due Stati previsti dalla risoluzione ONU

Non è tutto. Per risolvere il problema degli «indigeni» le Nazioni Unite decisero di costituire, accanto allo Stato ebraico, uno Stato arabo. Ai Paesi arabi della regione questa spartizione sembrò una doppia ingiustizia. Creava uno Stato europeo là dove l’Europa aveva promesso di andarsene e collocava al suo fianco, in una sorta di confederazione, uno Stato arabo costituito da un popolo che non aveva identità nazionale. Fu spiegato che gli ebrei avevano subito terribili persecuzioni e che il mondo aveva contratto con loro un debito. Ma gli arabi non riuscivano a capire perché questo debito dovesse venire pagato da loro anziché dai persecutori. Perché l’ONU non aveva assegnato agli ebrei una provincia europea? Perché non aveva permesso, ad esempio, che essi facessero ritorno in quel grande «regno degli ebrei» che si era costituito dopo il medioevo fra Polonia, Bielorussia, Ucraina e Lituania? Gli arabi entrarono in guerra quindi per due ragioni: volevano impedire la nascita di uno Stato europeo nella regione e spartirsi la zona su cui l’ONU aveva costituito, con una specie di editto imperiale, due nuove entità statali. Sulla fuga degli indigeni dai territori in cui si combatteva esiste una vasta letteratura storica. Molti, è vero, furono incitati ad andarsene dai leader arabi. Ma alcuni storici israeliani «revisionisti» hanno dimostrato recentemente che molti altri furono spinti ad andarsene dalle truppe israeliane.

Gli arabi avevano il diritto di contestare le decisioni dell’ONU e gli ebrei avevano il diritto di difendere la loro patria

Aggredito dai suoi vicini e deciso a meglio garantire la propria sicurezza, Ben Gurion (il fondatore dello Stato israeliano) approfittò della guerra per consolidare l’omogeneità nazional-religiosa dello Stato che egli aveva appena creato. La politica e la guerra obbediscono a regole che non è possibile pesare e valutare con i criteri del buon cuore e dei nobili sentimenti. Gli arabi avevano il diritto di contestare le decisioni dell’ONU e gli ebrei avevano il diritto di difendere la loro patria. Se avessero vinto, gli arabi avrebbero cancellato Israele dalla carta geografica e si sarebbero spartita la vecchia provincia ottomana. Vincendo, Israele «ripulì» il territorio e ne corresse le frontiere a proprio vantaggio. Comincia da quel momento, tuttavia, la catena degli errori e delle tragedie. I Paesi arabi avrebbero dovuto accogliere i profughi nelle loro terre e aiutarli a rifarsi una vita? Forse. L’errore di Israele fu di non capire che anche gli «indigeni», nel frattempo, erano diventati un popolo. Cacciati dalle loro case avevano perduto la terra, ma acquistato una patria. Questa patria è il «campo profughi» dove i palestinesi di due generazioni sono nati, sono andati a scuola, hanno giocato a pallone, si sono sposati. In questi piccoli pezzi di terra disseminati nella regione, si è formata una micidiale miscela di indignazione, rabbia, nostalgia, violenza; e questa miscela, piaccia o no, si chiama «identità nazionale». Esiste un fatto nuovo a cui è impossibile voltare le spalle: le guerre arabo-israeliane hanno generato un nuovo popolo. Anziché prenderne atto e adattarsi a questa nuova realtà, gli israeliani hanno praticato una politica che fa orrore. Alcuni governi (quelli di Rabin, Peres e Barak) hanno capito che occorreva accettare la prospettiva di uno Stato palestinese. Altri (da ultimo quelli di Netanyahu e Sharon) hanno continuato a considerare i palestinesi come gli occasionali abitanti di un territorio che era stato ottomano e sarebbe divenuto israeliano. Gli uni e gli altri, tuttavia, hanno permesso ad alcune migliaia di esponenti del fondamentalismo ebraico di installarsi, per meglio aspettare il Messia, in terre abitate dai palestinesi, alimentando sempre di più questo massacro, che oggi è diventato un vero e proprio genocidio di un popolo.

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