Il 9 Giugno è scaduto l’accordo sul ‘petrodollaro’ e l’Arabia Saudita non lo rinnoverà. In risposta alle sanzioni la Borsa di Mosca ha interrotto le negoziazioni in dollari e in euro

E’ stato archiviato un accordo sul petrolio che durava da cinquant’anni. Il messaggio è chiarissimo: anche il mondo arabo che produce petrolio si schiera in favore della cosiddetta ‘dedollarizzazione’

Nel silenzio quasi generale è scaduto lo scorso 9 Giugno l’accordo cinquantennale sul cosiddetto ‘petrodollaro’ tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Per la cronaca, tale accordo obbligava l’Arabia Saudita a vendere petrolio esclusivamente in dollari americani. Da cinque giorni non è più così e l’Arabia Saudita ha già annunciato che non rinnoverà l’accordo sui petrodollari. Insomma, l’onda lunga della cosiddetta ‘dedollarizzazione’ investe anche il mondo del petrolio. Come amano ripetere spesso i cinesi, si va a grandi passi verso un mondo multipolare, dove il dollaro statunitense non avrà più un ruolo centrale. L’accordo sui petrodollari risale ai primi anni ’70 del secolo passato, quando alla presidenza degli Stati Uniti d’America c’era Richard Nixon, con Henry Kissinger Segretario di Stato. La presidenza Nixon aveva chiuso la guerra nel Vietnam e la bilancia dei pagamenti americana era in deficit. Kissinger, che non era esattamente digiuno in economia, pose fine al Gold Standard, ovvero alla convertibilità del dollaro americano in oro. Con questa mossa gli Stati Uniti realizzarono due obiettivi: costrinsero il resto dell’Occidente a rivalutare le proprie monete e impedirono ai paesi produttori di petrolio di fare incetta di oro. Ricordiamo che nei primi anni ’70 la guerra del Kippur aveva dato il via alla crisi petrolifera e alla cosiddetta austerità. I Paesi produttori di petrolio, vendendo lo stesso petrolio con le monete agganciate all’oro, in poco tempo avrebbero accumulato montagne di oro: e la cosa non poteva andare a genio agli USA e, in generale, all’Occidente. (Sopra, foto tratta da Investire Oggi).

Una sconfitta secca per l’attuale amministrazione americana del Democratico Joe Biden

Così, nel cosiddetto Occidente industrializzato, da un sistema monetario agganciato all’oro, frutto degli accordi di Bretton Woods, si è passati a un sistema monetario speculativo sempre imperniato sul dollaro americano. Il nuovo accordo siglato nel 1974, come già accennato, metteva al centro sempre il dollaro USA come valuta principale per gli scambi di petrolio con l’Arabia Saudita. L’accordo ha retto fino ad oggi. Ma non poteva andare oltre perché ormai il mondo è cambiato. Ormai i Paesi arabi che producono petrolio sono schierati con Cina e Russia. E questa, forse, è una delle grandi sconfitte dell’amministrazione americana di Joe Biden. Da qualche giorno l’Arabia Saudita può diversificare le proprie opzioni commerciali: per vendere il proprio petrolio può accettare pagamenti con lo yuan cinese, con lo yen giapponese e persino con l’euro, anche se questo penalizzerebbe ulteriormente l’area del dollaro statunitense. Non solo. L’Arabia Saudita potrebbe anche prendere in considerazione valute digitali. E infatti non mancano gli osservatori economici e finanziari che dicono a chiare lettere che lo scenario che si delinea con la fine dell’accordo sui petrodollari favorirà il Bticoin (BTP).

Il ruolo del BRICS

In questa vicenda gioca anche un ruolo centrale il BRICS, un’associazione di Paesi che da anni lavora al progetto di una moneta alternativa al dollaro degli Stati Uniti d’America. Un BRICS sempre più presente e sempre più potente, se è vero che tanti Paesi del mondo, che non riconoscono più la leadership occidentale, hanno deciso di aderire a tale associazione (qui un nostro articolo). Di fatto, gli Stati Uniti e Paesi che vanno ancora dietro a USA, NATO, Fondo Monetario Internazionale, Unione europea, ONU e altre espressioni del cosiddetto Occidente industrializzato – sì è no un miliardo di persone contro gli altri 8 miliardi di abitanti della Terra – sono accerchiati ma non se ne rendono conto. O meglio, gli unici che l’hanno capito sono gli americani che cercano di reagire, anche se in modo scomposto. Di fatto, gli occidentali hanno perso la guerra in Ucraina, anche se i media dell’Occidente nascondono la realtà. Il fatto che i soldi che i Paesi occidentali debbono approntare per tentare di tenere in piedi l’Ucraina non bastano mai dovrebbe fare riflettere. Ma oggi l’Occidente non riflette e si sta andando ad infilare in un tunnel.

Il G7 ‘sequestra’ gli extra-profitti dei fondi russi presenti in Belgio per finanziare la guerra in Ucraina. E la Borsa di Mosca, per tutta risposta, blocca le negoziazioni in dollari e in euro

In queste ore il G7 che va in scena in Puglia ha deciso di utilizzare gli extra profitti dei fondi della Russia ‘congelati’ in Belgio per finanziare, per l’ennesina volta, la guerra in Ucraina. Si parla di un prestito di 60 miliardi di euro. Un eufemismo, perché tutti sanno che l’Ucraina non potrà mai restituire questi fondi. Una scelta sbagliatissima, perché gli altri Paesi del mondo che hanno depositi in euro sanno che i loro fondi da oggi sono a rischio e, con molta probabilità, se la guerra in Ucraina continuerà, ritireranno i propri soldi indebolendo una moneta unica europea già in affanno. La reazione della Russia non si è fatta attendere. Da qualche giorno la Borsa di Mosca non conduce più negoziazioni in dollari e in euro. Il caos politico ed economico che la guerra in Ucraina sta provocando, unitamente alla sostanziale vittoria dei russi in campo militare ed economico, potrebbe attirare investimenti sul debito sovrano della Russia. La sensazione è che il tramonto dell’Occidente stia avanzando a grandi falcate…

Per la cronaca, Investire Oggi aveva in parte anticipato la fine dell’accordo sul petrodollaro (come potete leggere qui).

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