Il deputato questore dell’Ars Vincenzo Figuccia prova a far applicare l’articolo 37 dello Statuto siciliano. “Mi auguro che la mozione abbia il sostegno di tutti i deputati dell’Ars”

Torna in scena una questione mai del tutto risolta: l’applicazione di un articolo dello Statuto siciliano che prevede che le imprese con sede centrale fuori dalla Sicilia e stabilimenti nella nostra Isola paghino le imposte alla Regione. Oggi il dibattito a Sala d’Ercole

Torna in scena l’articolo 37 dello Statuto autonomistico siciliano. Torna su tale argomento il centrodestra che oggi governa la nostra Isola. Ad applicare questa parte dello Statuto hanno provato il Governo Berlusconi 2001-2006 (Ministro delle Regioni Enrico la Loggia) e l’allora Governo regionale di Totò Cuffaro. Gli esiti sono stati deludenti, perché l’allora Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si inventò la clausola della “simmetria” che i ‘Padri’ dell’Autonomia siciliana non hanno mai incluso nello Statuto. Oggi il Parlamento dell’Isola riprova a rilanciare la questione con una mozione – primo firmatario il parlamentare regionale della Lega, Vincenzo Figuccia (foto sotto), che ricopre il ruolo di deputato questore – che deve essere discussa e votata dall’Assemblea regionale siciliana. Proviamo a illustrare i termini di una questione politica che si trascina da quando la Sicilia, nel 1947, sull’onda delle proteste popolari dei Separatisti, conquistò con un ‘Accordo pattizio’ l’Autonomia. Che all’articolo 37 recita: “Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell’accertamento dei redditi viene determinata la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi. L’imposta, relativa a detta quota, compete alla Regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima“. Secondo lo Statuto autonomistico siciliano, le imprese che hanno sede centrale fuori dalla Sicilia ma stabilimenti nella nostra Isola devono pagare le imposte alla Regione. Punto. Gli articoli dello Statuto che riguardano i rapporti finanziari tra Stato e Regione siciliana – articolo 36, articolo 37 e articolo 38 (e anche altri articoli dello Statuto) – sono stati affossati sin dalla prima legislatura dai partiti politici nazionali e, in particolare, dalla Democrazia Cristiana, dal PCI e dal PSI.

La storia dell’Autonomia finanziaria della Regione siciliana affossata sin dall’inizio da DC, PCI e PSI

La DC di quegli anni, per affossare l’Autonomia finanziaria della Regione siciliana sancita dai citati articoli 36, 37 e 38, mise in ‘fuori gioco’ il primo presidente della Regione siciliana, il democristiano Giuseppe Alessi, che aveva tutta l’intenzione di applicare l’Autonomia siciliana, pur mediando con lo Stato. Ma i suoi compagni di partito lo ‘placcarono’. Alessi non voleva mollare, perché era un uomo di grandi ideali e per qualche anno diede battaglia, quasi sempre in solitudine. Per indebolire Alessi, i suoi compagni di partito gli misero contro l’allora Arcivescovo di Palermo, il Cardinale Ernesto Ruffini, che non era una cattiva persona ma non era siciliano, non sapena nulla della Sicilia e, di suo, era un po’ di vecchio stampo, convinto, tanto per essere chiari, che, per i cattolici, Santa Romana Chiesa deve venire prima dello Stato. Avrebbe dovuto essere Don Luigi Sturzo – che invece era siciliano di Caltagirone – a difendere Alessi. Ma non lo difese molto. Sulla parte finanziaria dell’Autonomia siciliana Don Sturzo si barcamenava, andando un po’ di qua e un po’ di là: insomma, faceva un po’ il pesce dentro il barile. Poi quando i democristiani cominciarono a utilizzare in chiave clientelare il Codice di Camaldoli, Don Surzo si allontanò dalla DC, mantenendo i rapporti solo con i suoi allievi democristiani a lui fedeli. La DC chiamò a Roma Alessi. Per un trentennio o giù di lì, Alessi verrà eletto senatore nel collegio Gela-Caltagirone. E i comunisti? Fino a quando Palmiro Togliatti fu alla guida del partito, bene o male tolleravano l’Autonomia siciliana. Anche perché, nel secondo dopo guerra, Togliatti, per la Sicilia, era andato anche al di là dell’Autonomia nel celebre discorso tenuto a Messina. Però gli stessi comunisti, nel 1957, si rifiutarono di contestare il colpo di mano della Corte Costituzionale appena insediata (la Costituzione italiana del 1948 non prevede la Corte Costituzionale), che avocò a sé le competenze dell’Alta Corte per la Regione siciliana (qui un articolo). L’unico dirigente comunista siciliano che difese l’Alta Corte fu Giuseppe Montalbano che a un certo punto lascerà il PCI. E i Socialisti? In quegli anni erano contrari all’Autonomia siciliana.

Le due eccezioni: Piersanti Mattarella e Pio La Torre

DC, PCI e PSI hanno boicottato l’Autonomia siciliana. Con due eccezioni: Piersanti Mattarella per la DC e Pio la Torre per il PCI. Due grandi politici siciliani uccisi barbaramente. Due “delitti politici” che hanno sancito anche la fine del tentativo di rilancio dell’Autonomia siciliana. A rilanciare i temi dell’Autonomia finanziaria provano, come già ricordato Totò Cuffaro da presidente della Regione e Enrico La Loggia Ministro tra il 2004 e il 2005. Ma impattano con Berlusconi capo del Governo nazionale e, soprattutto, con l’allora Ministro Tremonti. I due si comportano come il Gatto e la Volpe e, di fatto, bloccano tutto. L’accordo tra Governo romano e Governo siciliano sull’articolo 37 dello Statuto esiste. Ma quel furbacchione di Tremonti, oltre a creare una gran confusione sul calcolo dell’IRES (non manca a lui la fantasia, se è vero che è un noto avvocato tributarista), come già ricordato, si inventa una clausola blocca-tutto: lo Stato è disposto a rinunciare al gettito delle imposte delle imprese con sede centrale fuori dalla Sicilia e stabilimenti nella nostra Isola, ma in cambio la Regione siciliana si deve prendere “simmetricamente” alcune funzioni gestite dallo Stato. Come trasferire alla Regione le funzioni “simmetricamente” rispetto alle nuove risorse? Un articolo dello Statuto siciliano chiaro, semplice viene trasformato in un incubo interpretativo. In verità la Corte Costituzionale, nel 2008, ha provato a fare chiarezza e, cosa insolita, non ha penalizzato la Regione siciliana (qui potete approfondire la mancata applicazione dell’articolo 37 dello Statuto). Ma, da allora, le burocrazie ministeriali ‘cavillano’ e ancora oggi questo accordo viene applicato in minima parte (per esempio da qualche banca). “Auspico che la mozione abbia il sostegno di tutti i deputati dell’Assemblea regionale, a fronte di una questione che riguarda tutto il popolo Siciliano e che permetterebbe di restituire non solo linfa alla nostra economia, trattandosi di circa tre miliardi di euro annui, ma anche dignità a tutti coloro che con il duro lavoro contribuiscono alla crescita economica della nostra regione”, dice il parlamentare Figuccia. Speriamo bene. Anche se non va dimenticato che la Regione siciliana non ha un organo di riscossione e non gestisce più nemmeno la riscossione a mezzo ruoli. In ogni caso che si torni a parlare di articolo 37 dello Statuto è un fatto positivo.

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