La leggenda dell’Estate di San Martino e la vita e le opere di questo straordinario uomo di Chiesa amico di Sant’Ambrogio che ha sempre privilegiato i poveri

di Maddalena Albanese

Oggi, 11 Novembre, nella seconda puntata dedicata a questo Santo, raccontiamo un po’ il personaggio

Ieri abbiamo raccontato storie e leggende legate a San Martino, tra biscotti, finto Anice, Muffolette e ricorrenze pagane (qui l’articolo). Oggi, giorno dedicato a San Martino, raccontiamo un po’ il personaggio. “L’Estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino”. Così recita un adagio popolare. Con tale nome si indica quei giorni di Autunno, durante i quali, dopo il primo freddo, abbiamo un periodo caratterizzato da clima transitoriamente più mite. Alcuni siti che si occupano di meteorologia hanno approfondito l’argomento con ricerche ad hoc, ed hanno trovato che “questa particolare fase di tempo stabile è quasi sempre esistita: analisi effettuate sulle mappe bariche dell’ultimo trentennio hanno mostrato che, in questo periodo, sembra avvenire ciclicamente l’espansione dell’anticiclone dalla Spagna verso tutto il Mediterraneo, portando condizioni di alta pressione, alte temperature e bel tempo, proteggendo dalle perturbazioni la maggior parte dell’Europa Centrale ed Occidentale” (v. Meteoweb.eu). Lungi da dissertare su cicloni ed anticicloni, semplicemente ci godiamo le temperature non fredde, anche se con qualche pioggia. (Sopra, foto di San Martino tratta da Wikipedia)

Il mite uomo nato in Ungheria comincia la sua avventura da militare

Questo periodo dell’anno, graziato dal freddo, da dove ha origine? San Martino de Tour, nato nel 316 circa a Sabaria Sicca, l’odierna città ungherese di Szombathely, ai confini con la Pannonia, è vissuto a Pavia sotto il rigido controllo del padre, tribuno militare nell’esercito dell’Impero Romano di Occidente. Nel 331, con un editto imperiale, l’esercito reclutò tutti i figli di veterani e quindi anche il Nostro che, mite ed incline più alla vita ascetica, si ritrovò suo malgrado a fare carriera nella vita militare. Inviato presso la Città di Amiens, venne assegnato alla Guardia Imperiale con funzioni di controllo e protezione, lontano dalla ferocia delle guerre. Nel 335, durante un inverno particolarmente rigido e piovoso, il soldato Martino incontrò un povero che intirizziva dal freddo e, senza pensarci due volte, tagliò il proprio caldo mantello in due e gliene cedette metà. Subito dopo la giornata divenne più calda e smise di piovere. Durante la notte Martino vide in sogno Gesù che diceva ai suoi Angeli: “Ecco Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito”. Al risveglio ritrovò il mantello integro. Egli, già catecumeno, si fece battezzare e dopo qualche tempo si congedò dall’esercito dell’imperatore per diventare soldato di Cristo.

Il dipinto che ritrae il Santo che si trova nell’Abbazia di San Martino delle Scale

Questo sogno, cardine della svolta della vita di San Martino, è l’oggetto di un magnifico dipinto del 1608 di Filippo Paladini, conservato nell’Abbazia di San Martino delle Scale a Monreale, intitolato “San Martino e il mendicante”. Un’altra versione della storia ci racconta che il Santo stava tornando a casa da una spedizione e mancavano poco più di tre giorni di viaggio per l’agognato riposo. Era Autunno, un Autunno freddo e piovoso. A cavallo avvolto nel proprio caldo mantello, Martino incontrò un povero, mezzo nudo, quasi moribondo per il freddo. Tagliò il mantello e con metà rivestì il povero. Immediatamente il Signore lo ricompensò facendo sparire le nubi e il freddo… finché Martino e il cavallo non furono entrati nella locanda per la notte. La mattina dopo stesso discorso: freddo, nubi, neve, nonostante tutto Martino riprese la strada e, di nuovo, incontrò un povero. Via anche la la seconda metà del mantello. Subito giornata calda e asciutta, almeno finché il Santo con la sua cavalcatura non rientrarono in albergo. In quel momento, puntuali come un orologio si aprirono le cateratte del cielo. Al terzo giorno uguale copione: freddo, neve, pioggia, mendicante infreddolito, ma niente più mantello. Il nostro soldato di Cristo si leva allora l’abito di lana e lo dà al povero. Subito sole e caldo fino al momento del rientro alla locanda. Poi… freddo, neve e vento come se non ci fosse un domani. Al quarto giorno il nostro Martino aveva solo la camicia sotto l’armatura, poco male! Oramai mancava solo mezza giornata per arrivare a casa. Ma  invariabilmente solito tempaccio autunnale e in mezzo ad esso, più infreddolito che mai, un altro mendicante. Che dargli? Rimaneva solo la camicia! Via anche quella! Martino avrà pensato: io ormai sono quasi a casa, lui non sa nemmeno dove ripararsi. Subito dopo sole caldo e tempo bellissimo che diede consolazione e salute al nostro Santo. Appena egli arrivò a casa, a riposarsi, l’Autunno freddo e bigio riprese ormai senza più tregua. (V. Sito cattolico Totustuus).

I re Merovingi

Il vero mantello di Martino è invece diventato parte della collezione di sante reliquie dei re Merovingi dei Franchi. I Re Merovingi scelsero San Martino anche con Santo Patrono del Regno dei Franchi. Una curiosità: il sostantivo “cappella” venne utilizzato per indicare con il termine di “cappellani” coloro che avevano il compito di conservare il mantello di San Martino. Da questo, il sostantivo fu esteso ad indicare l’Oratorio Reale e poi rimase nel significato che oggi consociamo. Il nostro Martino rimase al servizio dell’Imperatore ancora per venti anni, arrivando al grado di ufficiale in uno dei corpi scelti della guardia imperiale, poi si congedò dall’esercito per dei contrasti occorsi tra lui e l’allora Cesare della Gallie, Giuliano l’apostata. A quarant’anni divenne Monaco e trascorse al seconda parte della vita a combattere il paganesimo che ancora allignava nella vita del popolo, soprattutto quello rurale e le eresie che già serpeggiavano tra i cristiani. Ma tanto era inflessibile contro il peccato di paganesimo e di eresia, tanto era misericordioso e accogliente con coloro che ne erano le vittime. La sua accoglienza si manifestava anche nei confronti dei poveri, innumerevoli nell’Alto Medio Evo soprattutto nelle campagne e dei quali cercava di migliorare la condizioni di vita.

L’amicizia con Sant’Ambrogio

Visse in eremitaggio, avendo per qualche tempo come compagno di penitenza Sant’Ilario di Poitier. Ricordiamo, che per i loro meriti, entrambi vengono venerati come Santi da tutte le chiese che onorano il culto dei Santi. Divenne Vescovo di Tour nel 371 a furor di popolo. A Tour costruì successivamente il Monastero di Marmoutier. Si spense in odore di santità l’8 novembre del 397, mentre i funerali furono celebrati l’11 dello stesso mese con una raccolta di popolo immensa. Egli fu quindi ufficiale dell’esercito, eremita, monaco, esorcista (sembra anche), fondatore di comunità di monaci, di monasteri, propagatore della Fede Cristiana. Viaggiò come pastore soprattutto nelle aree rurali, operò miracoli, si racconta che ebbe a risuscitare tre defunti (uno dei suoi titoli era “Trium mortorum suscitator”), riservò per sé solo preghiere e penitenze, dandosi completamente al popolo, non più come nella giovinezza privandosi di una parte dei propri averi, ma esaurendo se stesso completamente sull’altare dell’amore a Dio ed ai fratelli in Unione al Cristo. E in qualità di difensore dei dogmi cristiani si trovò a condividere pensiero e amicizia con Sant’Ambrogio, tanto da meritare di essere raffigurato nel “mosaico dei quattro Dottori della Chiesa” insieme a San Gregorio Magno, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio nella Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello (tratto da Wikipedia). Ecco perché oltre che la Beatitudine nell’Alto dei Cieli ha meritato anche di essere venerato come Santo da tutte le Chiese che onorano il Culto dei Santi.

Amato in tutta l’Europa centrale

Il giorno della sua tumulazione l’innumerevole folla che lo accompagnò al sepolcro era diventata un fiume di fiaccole e candele. Questo evento è stato tramandato ancora ai nostri giorni dalla “processione delle lanterne”, “Lanternenumzug”, propria non solo delle aree cattoliche dei Paesi Germanici, dell’Austria, dell’Alto Adige, ma anche di quelle cristiane protestanti delle zone germaniche, a dimostrazione della stima e dell’effetto che la grandezza del suo ricordo suscita ancora oggi in tutta l’Europa Centrale (v. Raccontidifata.com). Il suo richiamo spirituale fece sì che gli venissero dedicate numerose chiese in Europa ed una Basilica a Tour, meta di pellegrinaggi. Ma tale richiamo spirituale segnò anche la causa della distruzione della Basilica e delle spoglie del Santo. Queste vennero date alle fiamme dagli Ugonotti nel 1562, e la Basilica saccheggiata. Il colpo definitivo venne inferto alla Basilica durante la Rivoluzione Francese, quando l’orda iconoclasta dei rivoluzionari inferociti la distrusse completamente.

Le oche e il tacchino di San Martino

Come nelle aree rurali e urbane dell’Italia il cibo votivo di San Martino è rappresentato da pani e biscotti impastati con i semi, così nelle aree franco-tedesche il cibo tipico di questa ricorrenza è l’oca. La povera oca ci va di mezzo perché, quando San Martino veniva cercato per mare e per terra dal popolo che lo voleva nominare vescovo, il Santo, attratto solo dalla vita eremitica, cercò rifugio in una stalla dove dormivano delle oche. Queste cominciando a starnazzare impaurite rivelarono il nascondiglio di Martino al popolo festante (v. Raccontidifata.com). Le oche non potevano immaginare che la “festa”, nei secoli avvenire, l’avrebbero proprio fatta ai loro discendenti con la scusa di rendere onore a San Martino. Non erano, come si può vedere, “oche sicule”: quelle, mute, avrebbero pensato “netti vitti e nenti sacciu”. E se la sarebbero fatta franca. Nei Paesi del Nord e del Centro Europa l’oca, farcita di mele, di artemisia, di castagne, di miele è la cena della Festa di San Martino. Addirittura in Boemia le ossa delle oche erano un tempo usate come presagio per la stagione invernale: se fossero state di colore nero, l’Inverno sarebbe stato freddo e piovoso, se fossero state bianche l’Inverno sarebbe stato mite. La Festa di San Martino è l’ultima prima dell’inizio dalla penitenza del periodo dell’Avvento, quindi ci si concedeva qualcosa in più e, peraltro, l’oca o il tacchino sono sempre stati considerati il ”maiale dei poveri”. Nella nostra tradizione latina l’oca è stata sostituita dal tacchino. Nel 1882 Enrico Onufrio scrive che mai il tacchino dve mancare sulla tavola dei festeggiamenti per l’11 Novembre insieme al Biscotto di San Martino ed al vino dolce in cui inzupparlo. Alla resa dei conti San Martino ci ha regalato un’Estate aggiuntiva, dei pani trasformati in dolci, il primo vino dell’anno (meritandosi tra l’altro il titolo di protettori dei bevitori-sicuramente delle loro anime, ma certamente non delle loro gozzoviglie), ma non dimentichiamo che egli per sé non ha trattenuto nulla. Ci ha lasciato soprattutto un messaggio: dividiamo il nostro con chi non ha nulla. Questo non toglie che ci possiamo godere magari una piccola guantierina di dolci, giusto per conservare la tradizione.

Fine

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